La Ceseta

PERCHE’ UNA SEZIONE DEL NOSTRO SITO DEDICATO A UN SOLO CANTO?
Innanzitutto nasce da un’amicizia, quella tra la famiglia Gleria e il Coro “Ai Preat”. Nasce perché questo canto, famosissimo e bellissimo, ha una grande storia da raccontare, che merita di essere conosciuta.
La nostra amicizia con la famiglia Gleria nasce di recente, per la geniale testardaggine di uno dei nostri coristi, Cesare.
Dopo aver imparato “La Ceseta di Transaqua”, nell’armonizzazione del Coro Monte Cauriol, qualche cosa non ci convinceva. Ormai avvezzi a riconoscere l’origine popolare dei canti o la mano di un maestro/paroliere, questo canto aveva qualcosa di non-detto, restava misterioso. Semplice nella melodia, come un canto popolare, il testo però ci suggeriva una creazione ad hoc. Eppure, in qualsiasi raccolta di partiture l’indicazione era sempre la stessa: “canto popolare”, “canto tradizionale”, “canto di montagna”, senza nessuna paternità.
Allora Cesare si è messo in caccia. Spulciando la rete ha trovato un ciclostile del 1972, il numero 2 (aprile-giugno 1972) del 58° anno di pubblicazione della “Rivista di vita alpina La Giovane montagna”. In un articolo, Gianni Pieropan rivelava l’origine del canto: una invenzione, parole e musica, del suo amico Quintino Gleria, in occasione del viaggio di nozze con Stella Castellan nel settembre 1946.
Con tenacia Cesare ha cercato tra i Gleria d’Italia, fino a risalire a Francesca, la figlia di Quintino e Stella. Lei stessa sorpresa dalla curiosità di Cesare, ci ha raccontato tutto ciò che sapeva sull’origine del canto e sulla sua diffusione: come un vero e proprio canto popolare, Quintino Gleria non ne ha mai rivendicato la paternità, ed ha lasciato che passasse di bocca in bocca, soprattutto negli ambienti dell’associazionismo cattolico, fino a diventare il canto notissimo che tutti conoscono.
Dall’amicizia con Francesca nasce questo spazio, che lei stessa e i suoi fratelli ci hanno chiesto di costruire insieme. Uno spazio che raccoglie la vicenda che ruota intorno a questo canto e riguarda sua madre, Stella, salita al Padre nel mese di maggio di quell’anno strano che è stato il 2020 alla bell’età di 104 anni, e suo padre, Quintino Gleria, delle cui vicende personali ci hanno fatto dono: abbiamo conosciuto due persone di enorme spessore, umano e culturale, dalla cui comunione non poteva che nascere un canto di altrettanta enorme bellezza.

PIU’ VERSIONI PER UN CANTO SOLO: FILOLOGIA DE “LA CESETA” Ogni canto popolare, per il modo stesso in cui si forma, ha più versioni. Si cambiano le parole rispetto al contesto o al “sentire” di chi la canta, e più versioni possono coesistere e tramandarsi.
L’esempio più noto è quello di “Ta pum”: un canto che si è diffuso enormemente dopo la Prima Guerra Mondiale, ma che era nato, quanto a melodia, durante la costruzione della galleria del Gottardo, ad opera dei minatori.
Per “La Ceseta” si è canonizzata una versione, quella redatta e armonizzata dal Coro Monte Cauriol.
Girano altre versioni? Non ne abbiamo mai sentite cantare da cori maschili. Però Pieropan nel suo racconto del 1972 cambia completamente l’ultima strofa. Scrive: Ne la ciasa dorme el bocia in cuna, / ne la staia se volta el vedeleto, / su in granato el gato ga fortuna /mandando la gata al ciar de luna.
Perché questa strofa non abbia avuto “fortuna” è abbastanza evidente! Innanzitutto è poco musicale (provate a cantarla!). Per quanto ci è stato raccontato di Quintino Gleria, inoltre, l’immagine che ne deriva è davvero poca cosa rispetto ai suoi grandi ideali e alla sua storia di impegno sociale e di fede. Ci sembra assolutamente più pertinente, anche al contesto del paesaggio delle Pale, il riferimento alla Chiesa di Transaqua e al suo cuore, contento anche nelle difficoltà.
Francesca e Titta confermano di aver sempre ascoltato dal papà e dalla mamma la versione canonica, che quindi trova ancor più valore.
Piuttosto correggono due piccoli particolari, non secondari per restare aderenti alla realtà e all’origine del canto: i “cavei driti e senza gropi” erano in verità “capei rizzi e senza gropi”. “Rizzi” (ricci) perché Stella, in occasione del suo matrimonio, qualche giorno prima, si era fatta arricciare i capelli e così compare nelle foto dell’epoca. Inoltre le scarpe non erano “rote”, bensì “strete”: Quintino raccontava ai figli che dopo la Guerra non c’era la possibilità di avere sempre le scarpe adatte ad ogni occasione, e che durante il viaggio di nozze si era portato degli scarponi che gli facevano dolere i piedi.
Piccolezze, per carità; piccolezze che però dicono dell’origine del canto, non scritto a tavolino ma sorto dal cuore per una grande pienezza. Quindi i particolari non rimangono secondari…
I PERSONAGGI
“Chi non ha conosciuto Quintino, di cognome Gleria, difficilmente può rendersi conto del vulcano stivato in quella sua zucca incipientemente spelata, davanti alla quale s’accendevano a ripetizione due occhietti che ti fulminavano con idee e battute sempre nuove, sempre attuali e centrate. Ch’egli ti aiutava a tradurre in pratica ponendo a pieno servizio una sorprendente e poliedrica preparazione culturale, in gran parte fatta d’istintiva genialità e che svariava dalla prosa alla poesia, dalla musica al disegno” (Gianni Pieropan, La Giovane Montagna, 1972, 2).

Intellettuale vicentino, scrittore e poeta per diletto, Quintino Gleria fu impegnato nel mondo dell’associazionismo cattolico, in particolare delle ACLI, delle quali risulta uno dei fondatori nelle sezioni locali. Amico intimo di Mariano Rumor e attivo nella DC vicentina, fu sempre al suo fianco nelle alterne vicende politiche fino ad essere chiamato a Roma per organizzarne la raccolta epistolare e documentaria oggi confluita nel Fondo Rumor della Biblioteca di Vicenza.

Stella Castellan

Degna moglie di cotanto uomo, abbiamo avuto modo di “conoscerla” dal suo diario, che i figli ci hanno permesso di leggere.
Cresciuta in una famiglia di commercianti, solidamente cristiana, fin da piccola conobbe ed aderì all’Azione Cattolica e poi alla FUCI, di cui fu attiva e convinta promotrice e sostenitrice. Sempre attenta alla vita sociale e politica, tra il 1943 e il 1945 svolse attività di sostegno alle formazioni partigiane, come staffetta e portaordini. Fermata e perquisita più volte, mai fu arrestata o inquisita. Entrata prestissimo tra le fila attive della DC, il suo fervore politico si rende evidente da un piccolo accadimento biografico: le nozze con Quintino Gleria furono posticipate da maggio a settembre del 1946 perché Stella era assai impegnata nell’attività politica in vista delle importantissime elezioni del 2 giugno ’46!
Accompagnò poi il marito nella sua attività politica, attendendo per quanto poteva una madre di famiglia alla vita dell’Azione Cattolica e di altre nascenti realtà politiche o sociali d’impronta cristiana. Dal suo diario emerge una grandissima fede, che l’ha sostenuta nelle molte prove che la vita le ha riservato.


I LUOGHI
Le Pale di San Martino (dette anche “Gruppo delle Pale”) sono il gruppo montuoso più esteso delle Dolomiti, con circa 240 km² di superficie, situate a cavallo tra Trentino orientale e Veneto (provincia di Belluno), nella zona compresa tra Primiero (valli del Cismon, del Canali, val Travignolo), Valle del Biois (Falcade, Canale d’Agordo) e Agordino. Nel settore centrale del gruppo, si estende l’altopiano delle Pale, su una superficie di circa 50 km², formando un enorme tavolato vuoto, roccioso e quasi lunare che oscilla tra i 2500 e i 2800 m s.l.m. di altitudine. La parte del gruppo estesa in Trentino è interamente compresa nel Parco naturale Paneveggio – Pale di San Martino.
Per l’eccezionale valore universale di questa bellezza naturale, il sistema geologico delle Pale è incluso nel sito “Le Dolomiti”, dichiarato nel 2009 patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.

Ed è proprio in questi luoghi che nel mese di settembre 1946, Quintino Gleria e Stella Castellan si erano recati in “viaggio di nozze”!

Un efficace quadretto lo dipinge con consueta sagacia nientemeno che Dino Buzzati nello stesso settembre del 1946, in una San Martino che tenta di ricucire i pezzi dopo l’ultima guerra …
«Guardatele un momento, fissatevi bene in mente quella tinta, la ritroverete tale e quale nell’empireo… Adesso si cominciano a intravedere gli ingredienti di cui è composto l’indescrivibile colore. Sono le ghiaie bianche, sparse sui ballatoi, sui terrazzini, sulle minime sporgenze. Battute dal sole, esse risplendono, e riverberano intorno una diffusa luce. Proprio a queste ghiaie candide è dovuto in gran parte la magnificenza delle rupi, la loro serenità sontuosa… E da tutto questo, per chi guarda dal fondo delle valli, che colore risulta? È bianco? giallo? grigio? madreperla? È il color cenere? È riflesso d’argento? È il pallore dei morti? È l’incarnato delle rose? Sono pietre o sono nuvole? Sono vere oppure è un sogno?”.
“Esistono da noi valli che non ho mai viste da nessun’altra parte. Identiche ai paesaggi di certe vecchie stampe del romanticismo che a vederle si pensava: ma è tutto falso, posti come questi non esistono. Invece esistono: con la stessa solitudine, gli stessi inverosimili dirupi mezzo nascosti da alberi e cespugli pencolanti sull’abisso, e le cascate di acqua, e sul sentiero un viandante piuttosto misterioso. Meno splendide certo delle trionfali alte valli dolomitiche recinte di candide crode. Però più enigmatiche, intime, segrete”. Meno turistiche delle Dolomiti cortinesi o della Badia, più frequentate dagli sciatori, la bellezza recondita della natura che circondava la sua Belluno inorgogliva il grande scrittore. Perché “di fronte alla natura, se si riesce a guardarla con animo sincero, le miserie si sciolgono, gli uomini si ritrovano l’un l’altro dimenticando di avere questo o quel colore”.

Transacqua – Chiesa Parrocchiale di San Marco.
Una prima cappella era presente almeno dal XIV secolo, poi fu ampliata secondo lo stile romanico. È degli anni Sessanta del Novecento l’ampliamento dell’aula, funzionale per accogliere i fedeli di una comunità che oggi supera i 2000 abitanti.
Dietro l’altar maggiore marmoreo s’impone una secentesca pala dedicata al patrono San Marco, riconducibile ad un pittore di area veneta, forse della famiglia Vecellio.
La navata di sinistra è abbellita da un altare ligneo del Seicento riservato a Sant’Antonio abate, protettore dei contadini. Nella predella sottostante i santi invocati per le pestilenze, Rocco e Sebastiano, ed un vescovo, Gottardo. Lì vicino c’è un dipinto ovale con lo Sposalizio della Vergine, commissionato dalla famiglia Althamer nel 1615. Sulla destra dell’arco santo spiccano frammenti di affreschi cinquecenteschi che decoravano la precedente facciata della chiesa, demolita nel 1863.

LA CREAZIONE DEL CANTO

La nascita del canto trova una testimone d’eccezione e inconfutabile in Stella Castellan, per la quale “La Ceseta di Transaqua” fu scritta. Ecco il racconto del suo diario, trascritto dai figli in occasione del suo centesimo compleanno.
Ci fermammo a Venezia due giorni ed il sabato 7 settembre partimmo per Fiera di Primiero, meta del nostro soggiorno, dove ci attendeva un ‘ amica dello zio Gastone che ci accompagnò in una bella pensione tipo famigliare dove ci trattenemmo per una decina di giorni felici. Tino si era portato anche la cassetta dei colori con le relative tavole e ne abbozzò una che per ò non portò mai a compimento, per il resto facemmo lunghe passeggiate sui boschi. Ricordo che a Transacqua, fuori della omonima chiesetta e a ridosso del piccolo cimitero, c’era una grossa catasta di tronchi di abeti e noi ci eravamo seduti su uno di essi quando Tino cominciò “a declamare “, guardando ispirato i miei occhi: ne uscì la ” Ceseta de Transacqua ” , che lui si ripeté più volte fischiettando felice per la sua vena poetica . Questi versi, a cui aveva aggiunto il motivo musicale di sua invenzione, li declamò poi nella sede della Giovane Montagna, da dove i soci diffusero la canzone facendola conoscere anche al di fuori dell’ambito vicentino; tra questi, in particolare, l’amico Toni Gobbi (Toni Gobbi (1914-1970), alpinista, socio della Giovane Montagna, trasferitosi in Val d ‘ Aosta divenne una nota guida alpina del CAI. Morì sul Sasso Piatto assieme ad altri tre alpinisti a causa di un improvviso distacco di neve ghiacciata che travolse la sua cordata) la diffuse alla scuola di alpinismo piemontese tanto che in seguito, parecchi anni dopo, fu incisa in un disco di canti di montagna del coro Monte Cauriol. (dal Diario di Stella Castellan, trascritto per i suoi 100 anni)

Commenta Francesca: “Un paio di versioni sono indubbiamente molto belle e si apprezzano particolarmente per la loro “maestosità”, quel tono quasi sacrale che impressionò molto mio padre, per quanto esso possa apparire forse un po’ lontano da quello dell’occasione originaria per cui fu composta: una canzone d’ amore che descrive con ispirata e domestica poesia l’oggetto, il contesto e lo scenario di quel frugale viaggio di nozze postbellico”.

Ma il “genio” dell’arte e dell’artista è proprio questo: esprimere un concetto, un’esperienza, un’immagine, un sentimento in modo talmente vivido da colpire la sensibilità di altri uomini, in altre circostanze, in altri luoghi, in altri tempi. Quella maestosità che Quintino aveva intorno e che dava senso al suo recentissimo matrimonio, al suo amore di tutta la vita, è stata così ben descritta nel suo canto che oggi, cantandola, è ancora esperienza concreta. Ciò cui quella maestosità rimanda è personale, ciascuno vi dà nome secondo ciò che sta vivendo ora.

Così un grande educatore, caro a tutti noi del Coro “Ai Preat”, don Luigi Giussani, commentando il canto in un dialogo con i giovani, poteva dire, dell’ultima strofa: “Questa immagine (della chiesa sul monte e della felicità a prescindere dalla fatica e dalle “scarpe strete”) sembra uno dei vertici dello stupore creaturale.” “Cristianamente non si può non essere aperti a questo stupore creaturale, allo stupore creaturale del cielo, delle montagne, della bellezza della donna che si ama, della bellezza del figlio che nasce, della bellezza dei bambini che diventano grandi.”